Il viaggio in una dimensione di arte del vivere

 

 

LORENZO L. BORGIA & MONICA LANFREDINI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 22 febbraio 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]

 

Molto ho veduto ma ancor più ho riflettuto: il mondo si svela sempre più,

e anche quello che sapevo da tempo, soltanto adesso diviene realmente mio.

Quale creatura è l’uomo! Impara presto a sapere ma tardi a mettere in pratica.

[Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, 1817]

 

 

Il viaggio, così come lo intendeva Goethe e in molti casi lo si intende ancora oggi, appartiene tanto all’ordine del sapere quanto a quello del mettere in pratica: si desidera, si progetta e si sceglie per motivi diversi, ma invariabilmente consiste nell’attuazione pratica di un temporaneo cambiamento di luogo e di vita, che comporta la conoscenza derivata dalle nuove esperienze. La partenza, il transito e il soggiorno lontano da casa, secondo un modello che ha nel Viaggio in Italia un celebrato prototipo, è un piano che consente di mutare la dimensione di fondo delle esperienze psichiche quotidiane, ma che richiede una disposizione d’animo positiva e delle risorse da investire per trarre il massimo profitto dalle nuove situazioni e dai nuovi incontri.

Non può essere l’equivalente di una fuga da una condizione di sofferenza, come l’andar via di chi attribuisce alle circostanze ambientali un proprio malessere e non al modo in cui ha reagito e vissuto le esperienze negative; o come la partenza quale strategia per rompere un legame amoroso. Di quest’ultima possibilità Goethe aveva una profonda conoscenza[1], come si comprende leggendo un episodio del suo Le Affinità Elettive, in cui il protagonista, Edoardo, parte d’improvviso per allontanarsi da Ottilia, nipote di sua moglie che è andata a vivere con loro e della quale è innamorato:

 

Ottilia si avvicinò alla finestra, sentendo qualcuno passare via a cavallo, e poté ancora scorgere Edoardo di schiena. Le riuscì strano ch’egli uscisse di casa senza averla vista, senza averle dato il buon giorno. […] Ottilia ebbe bisogno di tutta la propria padronanza, per nascondere la meraviglia e il dolore. […] Fu un momento terribile per Ottilia. Non comprendeva, non sapeva…[2]

 

In questi casi, l’andar via non consente di ottenere i benefici del soggiorno in un luogo diverso, ma soprattutto non può risolvere il problema affettivo, come voleva la massima di Orazio: Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt[3]. Col viaggio muta il cielo sopra la propria testa, ma non l’animo; e, infatti, Edoardo e Ottilia continueranno a nutrire il loro reciproco sentimento, che sarà causa di vicissitudini, dispiaceri, patimenti e, infine, di un tragico destino.

Andar via e vivere per un periodo di tempo altrove è utile in molti casi, ma non è una panacea, e particolarmente quando un problema esistenziale si sviluppa in una dimensione psicologica che genera sofferenza, e soverchiando le forze del soggetto è percepito come irrisolvibile, è necessario fermarsi ad affrontarlo nel modo più idoneo, secondo quanto oggi si ritiene alla luce delle più recenti conoscenze di psicopatologia. Non sperare di trovare la serenità con un viaggio, ma prima affrontare l’impasse che genera il turbamento, è una misura di saggezza che sostanzialmente coincide con l’opinione espressa da Seneca nelle Lettere a Lucilio quando, riprendendo Orazio, scrive: Animum debes mutare, non caelum[4].

Ma se la disposizione d’animo, ossia lo stato psichico di fondo, non vive la restrizione di prospettive e la coartazione degli affetti che accompagnano il pathos ansioso, e dunque configura una precondizione necessaria e spesso sufficiente per lo sviluppo di una routine di equilibrio armonico in serenità di coscienza, allora l’avventura del cambiamento temporaneo di vita può essere intrapresa.

La parola viaggio in italiano, poco diversa dai termini equivalenti nelle altre lingue neolatine (voyage, francese; viaje, spagnolo; viagem, portoghese), si ritiene sia originata per assimilazione metonimica di senso dal latino viaticum, che indicava la “provvista per il viaggio”, e sia passata attraverso le forme viatge (provenzale) e veiage (francese antico). In ogni caso, in tutte queste lingue, l’uso del vocabolo in passato e fino a tempi relativamente recenti è stato quasi esclusivamente riservato a un trasferimento in un luogo lontano, implicando un soggiorno e una durata mai breve[5]. Il termine Reise impiegato da Goethe (Italienische Reise) ha sostanzialmente la stessa calibratura e consuetudine semantica degli equivalenti neolatini, anche se la sua incerta etimologia ha suggerito una possibile ricostruzione davvero curiosa. Infatti, vi è traccia remota di un'esortazione impiegata come sveglia dai marinai germanici: “Reise, Reise!”, che si suppone derivata da un verbo dell’Alto Tedesco Medio, Risen, comunemente tradotto con alzarsi; il verbo è poi scomparso nell’Alto Tedesco Nuovo, in cui permane il nome di genere femminile Reise, col significato di viaggio. Un approfondimento etimologico ripreso da molti autori attribuisce all’antica parola reisa dell’idioma islandese il ruolo di fonte verboacustica: sarebbero stati i marinai islandesi a trasmettere questo vocabolo a quelli germanici[6]. Il lemma reisa nei moderni dizionari islandesi ha molti significati, fra cui alzarsi, ergere, allevare e viaggiare, in qualità di verbo, e gita come sostantivo di genere femminile. Dunque, secondo questa ricostruzione, la parola tedesca Reise avrebbe avuto origine in un contesto semantico sviluppato nei rapporti con i marinai islandesi, e pertanto associato all’esperienza di lunghe traversate in mare.

Il viaggio per ragioni diverse da quelle migratorie o belliche ha un’antichissima radice, della quale si trovano tracce nei documenti dei Greci antichi e di altre popolazioni del Mediterraneo, ma ciò che nei secoli caratterizza il viaggiatore europeo è il senso di missione culturale: l’avventura è vissuta per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza di luoghi, popoli, arte e tradizioni, ma allo stesso tempo è un compito caratterizzato dalla costante presenza nel proprio immaginario di referenti noti, privilegiati o potenziali e del tutto sconosciuti, accomunati nel ruolo di lettori del racconto delle memorie dell’esperienza, che sarà pubblicato al ritorno.

Partire e vivere altrove, per un certo tempo, magari in tour secondo rotte e mete celebrate e precedute da fama storica millenaria, secondo un costume appartenuto nell’antichità alle famiglie reali, poi esteso ai nobili e infine ai borghesi, soddisfa esigenze culturali e si sviluppa secondo le trame di senso proprie dell’attualità nella coscienza individuale e collettiva. Ma nella sua essenza di esperienza deliberata, non solo implica intenzionalità progettuale e decisionale, ma si caratterizza anche per l’attivazione di una forma specificamente dedicata di consapevolezza, che realizza un monitoraggio del presente in divenire, spesso attraverso forme quali i diari di viaggio, corredati da raccolte di immagini e acquisto di souvenir.

Tale “coscienza del viaggio” consente una sorta di esperimento controllato, in cui si può confrontare la propria fenomenica mentale attuale con quella dello stato psichico nella dimora abituale e, se si dispone di compagni di viaggio, si può sfruttare una sorta di “effetto specchio reciproco” per rilevare le differenze comportamentali e di tono affettivo.

La documentazione e i ricordi di viaggio contribuiscono ad ancorare a quegli elementi percettivi lo stato mentale del presente e a rievocarlo nei tempi successivi, dopo il ritorno. Non si tratta di una semplice rimemorazione, come si è abituati a credere, declinando in termini cognitivi l’esperienza; ma è in questione il setting funzionale della mente che, secondo gli studi condotti dal nostro presidente, è espressione di uno stato fisiologico che interessa tutto l’organismo. È empiricamente evidente che il gioco di riattivazione ottiene, in questo senso, un risultato parziale, la cui portata, in genere, si riduce sempre più, man mano che ci si allontana nel tempo dall’attualità della diretta esperienza vissuta.

In tal modo, senza esserne consapevoli, si fa conto sul potere evocativo di un ambiente esterno che suscita un ambiente interno.

Nella storia pluricentenaria della narrativa odeporica e periegetica, dopo Il Milione di Marco Polo, ci sembra si possa riconoscere una sorta di dicotomia: il viaggiatore italiano che fa rotta da esploratore verso le mete più lontane, e i viaggiatori europei che convergono sull’Italia, quale concentrato di bellezze naturali e artistiche.

A questa seconda tipologia appartiene l’esperienza di Goethe, secondo una tradizione che si faceva risalire ad Albrecht Dürer, di amore per l’Italia del Tedesco che vuole specializzarsi nel campo dell’arte; ma soprattutto si colloca nella cornice della passione per il nostro paese sviluppata in seno alla cultura illuministica, e poi coltivata nella letteratura romantica.

Si cita come antecedente del diario goethiano la grande opera in tre voluminosi tomi di J. J. Volkmann, il cui titolo è lungo quasi quanto una prefazione e i cui contenuti hanno sicuramente rappresentato un riferimento per l’estensione del testo che vide le stampe ventotto anni dopo il tour italiano[7]; tuttavia, noi riteniamo che la principale ragione motivante e il modello psicologico siano nati nella mente di Goethe fin da piccolo, dalla narrazione di suo padre, Johann Caspar Goethe. Il genitore, infatti, aveva attraversato la penisola dal 1739 al 1740, lasciandone poi testimonianza in un saggio scritto in italiano, Viaggio per l’Italia, ed era stato prodigo di racconti immaginifici sul “Paese dove fioriscono i limoni”.

È a nostro avviso opportuno sottolineare la profonda differenza che esisteva all’epoca fra il Bel Paese e la Mitteleuropa: una distanza forse superiore a quella che oggi possiamo rilevare fra la vista panoramica delle nostre città e le zone urbane delle terre tropicali[8]. I paesi del mondo stanno perdendo sempre più in individualità e originalità; l’omologazione globale dei modi di vita e di tutte le attività antropiche sta cancellando quell’effetto di novità assoluta e imprevedibile che portava il viaggiatore a guardare con lo stupore ammirato e curioso di chi incontra, come nel più straordinario dei sogni, una realtà del tutto diversa, tanto ricca e inesplorata da destare il desiderio di appartenervi per vivere una nuova vita. Oppure, risvegliare lo sguardo e le aspettative del bambino che sente in sé l’energia e l’eccitazione di una promessa di felicità.

Il cervello giudica per comparazione e, secondo Giuseppe Perrella, questa proprietà ha un ruolo essenziale nel determinare uno dei più importanti effetti psicologici positivi del vissuto nella dimensione del viaggio. Conservando il setting ambientale cerebrale abituale, basato sul repertorio di immagini e situazioni ricorrenti del proprio quotidiano nella propria terra, l’impatto di una realtà del tutto diversa, che obbliga ad accantonare la routine inferenziale sulla quale si basa il riconoscimento implicito del mondo circostante, si traduce in uno stimolo potente, in grado di superare la soglia degli aggiustamenti ordinari alle piccole novità, e innescare il cambiamento di setting funzionale[9].

Le impressioni di Goethe sulle esperienze vissute a Napoli sono paradigmatiche di un tale profondo cambiamento di registro in un ambiente diverso, nuovo, affascinante, imprevedibile e intenso in ogni aspetto, che gli suggerisce frequentemente l’accostamento al paradiso e, di tanto in tanto, il rilievo della qualità infernale dell’attività vulcanica del Vesuvio. Si dichiara senza parole di fronte allo spettacolo di natura: “Se mi propongo di scrivere parole, sono sempre immagini quelle che sorgono ai miei occhi: della terra feconda, del mare immenso, delle isole vaporose, del vulcano fumante; e per rappresentare tutto ciò mi mancano gli strumenti adatti”[10].

La sua terza ascesa al Vesuvio durante una colata lavica ci rende conto di un’intensità d’esperienza assolutamente fuori dal comune: “… ci dirigemmo impavidi verso un formidabile getto di vapore che usciva dalla montagna, più in basso del cratere; scendemmo poi alquanto lungo il fianco del cono, finché nell’aria limpida potemmo vedere la lava sgorgante dalla paurosa nube di fumo. Si può ben aver udito parlare mille volte di un fenomeno, ma il suo vero carattere non si percepisce che vedendolo nell’immediata realtà. Il getto di lava era stretto, non più di dieci piedi in larghezza, ma impressionante era il modo in cui scendeva… Nel sole fulgido la massa incandescente assumeva una tinta fosca. Mi prese il desiderio d’avvicinarmi al punto donde la lava esce dal vulcano… Tentammo di fare ancora qualche decina di passi, ma il suolo si faceva sempre più caldo; un fumo impenetrabile ci turbinava intorno, oscurando il sole e soffocandoci. La guida, che mi precedeva, tornò indietro di corsa, mi afferrò per un braccio e ci sottraemmo in fretta a quel diabolico fumo.

Dopo esserci ristorati gli occhi col panorama, la bocca e il petto col vino, facemmo un giro per osservare altre eventuali manifestazioni di questa cima infernale, troneggiante al centro d’un paradiso”[11].

Gli inglesi, un secolo prima, avevano chiamato Napoli Devils’ Paradise, il Paradiso dei diavoli, ma Goethe non sembra condividere questo giudizio: “Qui nessuno sa nulla dell’altro, quasi non si accorge degli altri che gli passano accanto; tutti scorrazzano in paradiso da mane a sera senza preoccuparsi troppo, e quando comincia a ribollire la vicina bocca d’inferno chiedono aiuto al sangue di san Gennaro; e con che si difende, o cerca di difendersi tutto il resto del mondo dalla morte e dal diavolo, se non col sangue?”[12].

La simpatia che prova per il popolo partenopeo, lo porta a giustificare una credenza che non condivide. Soprattutto comprende l’effetto psichico positivo del rapporto con la variegata e multiforme cittadinanza del posto: “Il trovarsi in mezzo a una massa così innumerevole e perennemente agitata è straordinario e insieme salutare”[13].

La giusta distanza dalla moltitudine di sconosciuti gli consente di evitare rischi di esperienze negative e beneficiare degli stimoli di un ambiente ricco, che includono aumento della neurogenesi, della sinaptogenesi, dell’attività neurale e gliale, della fornitura di ossigeno e glucosio ematico al cervello, costituendo un supporto trofico per la base neurofunzionale dei processi psicoadattativi. La percezione di giovamento, che induce Goethe a definire “salutare” l’immersione nella moltitudine, sembra essere una prova indiretta che lo stato psichico evocato sia parte di un quadro fisiologico generale, secondo l’assunto della nostra scuola neuroscientifica.

È difficile dire quanto il potere evocativo della circostanza presente, ossia l’intensità dell’effetto generato dalla piacevole percezione dell’ambiente, per essere efficace nel determinare un mutamento di stato funzionale abbia bisogno di un’appropriata condizione pregressa. Per certo, sappiamo che uno stato psichico caratterizzato da elevata attivazione dei sistemi neuronici dello stress è in grado di disturbare anche il più potente ed elementare programma biologico per mutare l’assetto funzionale dell’organismo, ossia la preparazione all’accoppiamento.

La prospettiva che si assume nell’intraprendere un viaggio ha sicuramente un’influenza da non trascurare e, nel caso di Goethe, la predisposizione era stata delle migliori, grazie ai racconti paterni e all’influenza del precettore italiano Domenico Giovinazzi. Possiamo indicare almeno due effetti psicologici attribuibili a una buona preparazione: le circostanze ignote sono prefigurate come possibilità e non temute come un rischio; un investimento positivo delle realtà non immediatamente decifrabili aiuta nella selezione interpretativa degli aspetti migliori.

Se gli effetti evocativi del viaggio dipendono da una stima per comparazione, e la loro entità come ipotizzato dal nostro presidente è proporzionale alla differenza fra stati mentali, si comprende la preferenza di Goethe per Napoli nel paragone con Roma: la distanza fra ambienti e vedute partenopei da quelli di Francoforte e delle altre città a lui familiari è decisamente maggiore. L’autore de I dolori del giovane Werther propone la sua scelta come evidenza oggettiva con queste parole, vergate un paio di settimane prima dell’escursione per vedere la colata lavica: “Se nessun Napoletano vuole andarsene dalla sua città, se i poeti locali celebrano in grandiose iperboli l’incanto di questi siti, non si può fargliene carico, vi fossero anche due o tre Vesuvii nelle vicinanze. Qui non si riesce davvero a rimpiangere Roma; confrontata con questa grande apertura di cielo la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavorevole”[14].

Il rammarico di Goethe di non poter comunicare momento per momento le impressioni di viaggio[15], che probabilmente lo avrebbe portato ad apprezzare molto i social media, se fosse vissuto ai nostri giorni, ci introduce a due tematiche psicologiche a nostro avviso di notevole interesse:

a) nella dimensione mentale goethiana del viaggio è implicita e imprescindibile la presenza dello spettatore. Lo sviluppo cosciente dell’esperienza sembra essere costantemente e automaticamente proiettato in uno spazio di intersoggettività, dove il viaggiatore si esibisce da protagonista sulla scena che offre all’altro quale possibilità di uscire dalla soggettività del proprio immaginario ed entrare nella dinamica del racconto altrui per vivere di riflesso una realtà in accadimento;

b) il viaggio rende speciali, in quanto porta dove altri vorrebbero essere ma non sono: realizza un desiderio dell’altro, inducendolo a identificarsi. Nell’attualità pan-mediatica questo connotato del viaggiatore è notevolmente ridimensionato: sembra che tutti possano viaggiare e invadere la rete di foto e video della propria esperienza, così che solo pochi rimangono nelle condizioni ideali per il ruolo di referente del viaggiatore.

Questi due temi meriterebbero uno specifico approfondimento, così come lo meriterebbe l’analisi dei contenuti di un rapporto “a specchio” con un compagno di viaggio, ma per rimanere sull’argomento principale, costituito dal cambiamento evocato dal viaggio con le sue condizioni predisponenti e gli effetti conseguenti, notiamo come lo stato d’animo di Goethe, connotato da un fondo di intensi affetti espansivi che si traducevano spesso in entusiasmo, influenzi evidentemente i giudizi.

A Pompei, la visione delle eleganti decorazioni e degli affreschi dal cromatismo intenso ed equilibrato lo inducono ad affermare che quella testimonianza “…attesta ancora il gusto artistico e la gioia di vivere d’un intero popolo, gusto e gioia di cui oggi nemmeno l’amatore più appassionato ha alcuna idea, né sentimento, né bisogno”[16]. A Napoli: “Basta girare per le strade e aprire gli occhi per vedere spettacoli inimitabili”[17]; poi, dopo aver descritto una scena pittoresca in cui dei garzoni con parrucche da angeli cantando servivano frittelle ai passanti, spiega: “Scene così potrei raccontarne a non finire; e ogni giorno succede lo stesso, sempre qualcosa di nuovo e di incredibile…”[18]. Ancora a Napoli, nel brano seguente sembra chiara la proiezione – in senso psicoanalitico – del proprio stato d’animo o, se vogliamo impiegare un concetto esposto qui in precedenza, un’interpretazione orientata a selezionare in chiave positiva: “Tutto induce a credere che una terra felice come questa, dove ogni elementare bisogno si trova copiosamente soddisfatto, produca anche gente di indole felice, capace d’aspettare flemmaticamente dall’indomani ciò che le ha portato l’oggi e di vivere, quindi, senza pensieri”[19].

Il viaggio ha sortito per Goethe gli effetti desiderati: ha trovato quanto e più di ciò che si attendeva, ma soprattutto ha vissuto nel modo migliore un tempo dello spirito che ha lasciato in lui tracce salutari che, con ogni probabilità, avrà sperimentato come un incremento di risorse psichiche. Così si esprime: “Ciò che m’ero sempre aspettato è accaduto in realtà: solo in questo paese ho potuto comprendere e investigare certi fenomeni naturali, certe confusioni delle idee. Mieto a piene mani in ogni direzione e molto riporterò con me: anche, ne son certo, molto amore per la mia terra e gusto di vivere con pochi amici”[20].

In queste poche righe preziose sono racchiuse tematiche che vanno dall’oggettività di un luogo che presenta fenomeni naturali assenti nella terra di abituale dimora, alla soggettività di uno stato di coscienza attento a cercare, e perciò in grado di scoprire e analizzare, “certe confusioni delle idee”; fino ai contenuti di coscienza nello stato d’animo del ritorno a casa, che evocano il ricordo delle pagine psicologiche e poetiche di Claude Lévi-Strauss su questo argomento.

E proprio il fondatore dello strutturalismo ci offre, con Tristi Tropici, un “materiale di viaggio” che ci consente di entrare nella dimensione psicologica e culturale di un’esperienza che, rinverdendo la tradizione del viaggio filosofico in voga tra il XVI e il XIX secolo, appare in continuità con il filone di Rousseau e Chateaubriand. Infatti, se nei termini dei contenuti di antropologia strutturale l’opera è assolutamente originale e innovativa, e se nella forma di alta qualità letteraria supera gli stereotipi classici, nel suo senso più profondo il testo rivela una costante tensione per gli interrogativi fondamentali sul senso della vita e per il tentativo di darvi una risposta attraverso quella esperienza esistenziale. Claude Lévi-Strauss non si limita a raccontare le spedizioni nelle foreste del Brasile e le missioni etnologiche in India e negli Stati Uniti, ma rivela “quell’itinerario più segreto che induce un uomo a scegliere sé stesso attraverso le vicende biografiche e professionali, e – trattandosi di uno studioso – a mettere in causa, con sé stesso, la propria scienza”[21].

Il viaggio, quale esperienza dell’ignoto, dell’estraneo, dell’imprevisto e del nuovo, non si limita a suscitare interesse presentando un altrove ambientale e un soggetto della vita radicalmente diverso da sé, ma obbliga a guardarsi con gli occhi degli altri e a scoprire tratti, forme e rappresentazioni di sé mai concepite in precedenza. Lévi-Strauss si rende conto di quanto sia relativo come soggetto culturale e, guardandosi con gli occhi degli altri, vede apparire come propri connotati aspetti del tutto ignorati fra noi europei, perché comuni a tutta la radice antropologica.

Partito da Parigi con l’idea di incontrare membri di tribù quali esemplari di prototipi etnologici da definire, si trova di fronte a persone che, pur prive di sistemi simbolici per la comunicazione scritta, impiegano astrazioni concettuali e modelli per decifrare lui secondo la propria cultura. In altre parole, si accorge di essere diventato oggetto di osservazione, se non di vero e proprio studio.

Il viaggio, nella sua dimensione di conoscenza, consente a Lévi-Strauss di comprendere che non esiste popolo senza cultura e lo induce a divenire paladino dell’anti-razzismo, impegnato a demolire il concetto di arcaismo in antropologia. L’impatto con quelle realtà lontane, divenute poi familiari, muta la sua coscienza: i nativi di regioni remote non sono più “identità minori” e riducibili a stereotipi concettuali o termini di paragone per dispute filosofiche o politiche, ma persone reali con un proprio punto di vista sull’uomo, sul mondo, sulla vita e sulla morte.

 L’esperienza umana rende Lévi-Strauss consapevole che, escludendo l’idea dell’integrazione della propria realtà con quella delle popolazioni esotiche, gli occidentali si rendevano responsabili, con le loro imprese di studio sul campo, di sfruttamento strumentale di quelle piccole popolazioni in via di estinzione, per l’egoistico interesse di sapere di più sulle proprie radici.

Il viaggio, dunque, non ha solo mutato in itinere lo stato mentale e le prestazioni cognitive del celebre antropologo, sottratto alle abitudini forzatamente sedentarie degli intellettuali del suo calibro, ma lo ha arricchito in termini morali, lasciandogli una percezione di responsabilità verso i popoli che vivono in una condizione molto più difficile della nostra.

 

Gli autori del testo ringraziano il presidente Giuseppe Perrella che ha espresso in maniera dettagliata e documentata quanto è esposto in sintesi nel presente scritto, e invitano alla lettura degli articoli di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia & Monica Lanfredini

BM&L-22 febbraio 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Si vuole che Goethe abbia impiegato il viaggio per compiere quel progressivo distacco dalla signora von Stein che gli avrebbe consentito di stringere a Weimar la relazione con Christiane Vulpius.

[2] J. W. Goethe, Le Affinità Elettive, in Goethe Romanzi, pp. 626-627, I Meridiani Collezione, Mondadori, Milano 2006.

[3] La frase (Non mutano il loro animo ma solo il cielo coloro che attraversano il mare), in cui l’attraversare il mare è metafora del lungo viaggio, è tratta dalle Epistulae (I, 11, v. 27) di Quinto Orazio Flacco.

[4] Seneca, Lettere a Lucilio, XXVIII, 1, CIV, 8.

[5] Il gergo dei mezzi di trasporto ha introdotto l’uso dei termini “viaggio” e “viaggiatori” per le circostanze relative a qualsiasi spostamento, anche di brevissima durata.

[6] Questa etimologia è esposta in molti studi etimologici tedeschi e riportata in sintesi in vari dizionari.

[7] Goethe è in Italia dal 1786 al 1788; la prima parte del viaggio in Italia è pubblicata nel 1816. L’opera di Wolkmann, che ha un antecedente francese nella Summa enciclopedica dell’Italia di Lalande in otto volumi, fu stampata a Lipsia fra il 1770 e il 1771 ed era così intitolata: Notizie storico-critiche d’Italia che contengono una descrizione precisa di questo paese, degli usi e costumi, della forma di governo, commercio, economia, dello stato delle scienze e in particolare delle opere d’arte insieme con un giudizio su di esse. Composta sulla base delle più recenti descrizioni di viaggio francesi e inglesi e di annotazioni originali dal dr. J. J. Wolkmann.

[8] Si dà per implicito che la qualità della nuova esperienza sia positiva, altrimenti l’entità della differenza sarebbe proporzionale al rimpianto per la propria terra, come nella poesia “La dolcezza di quel viso” in cui John Keats dice: Come un Toscano perduto in Lapponia, tra le nevi, pensa al suo dolce Arno.

[9] L’interpretazione è tratta dagli studi del nostro presidente proposti al “Seminario Permanente sull’Arte del Vivere”.

[10] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 232, I Meridiani Collezione, Mondadori, Milano 2006.

[11] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, pp. 239-240.

[12] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 234.

[13] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, ivi.

[14] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 209.

[15] “Gran peccato ch’io non possa comunicare di momento in momento le mie osservazioni” (p. 233).

[16] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 220.

[17] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 237.

[18] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 238.

[19] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 221.

[20] J. W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 233.

[21] Paolo Caruso, Introduzione in Claude Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, p. 19, Einaudi, Torino 1979.